Numero 25

LA CINA È SEMPRE PIÙ VICINA, COMMERCIALMENTE PARLANDO


Giulio Rosi


Nel 1967 Marco Belloccchio firmò un film di lucida e rabbiosa contestazione intitolato “La Cina è vicina”. I tempi erano quelli della corruzione degli ambienti familiari e lo quallore sordido della provincia, imbastiti su una trama di satira mordace del trasformismo politico, dell’ipocrisia borghese e del falso riformismo del centrosinistra. Ma la parte più emblematica dell’opera, a quarant’anni dalla sua realizzazione, appare il titolo.

Perchè già da allora la Cina era vicina, come non mai. Di certo più vicina di quanto non lo fosse ai tempi di Marco Polo, quando per raggiungerla ci volevano mesi e forse anni di viaggio. Gli attuali stereotipi, da principio ingranditi per quel timore iconografico nei confronti del diverso, ci hanno presentato questo immenso Paese come un puzzle difficile da mettere insieme. La Cina  da conquistare  e che in realtà invade i mercati del mondo con prodotti malamente copiati, la Cina dell’espansione impresariale che allunga i suoi tentacoli produttivi nei paesi occidentali, la Cina della mafia spietata e invadente, la Cina che usa i ristoranti come cavalli di troia per “infettare” i gangli linfatici dell’economia mondiale, la Cina delle contraddizioni che aspira al capitalismo ma calpesta i diritti umani, la Cina dello sviluppo commerciale in un mercato globale che numericamente la favorisce, la Cina degli scandali per la corruzione istituzionale che nei suoi ministeri fa chiudere un occhio sulla qualità dei prodotti da esportare e così via.

Sta di fatto che oggi la Cina è una realtà con la quale tutto il mondo si trova a dover fare i conti, sia in senso figurato sia in concreto e l’Italia lo ha capito, trasformandosi nel partner privilegiato della Cina nei confronti dell’Europa. 

Più di 2.000 imprese italiane, operanti in Cina e con la Cina, hanno trasformato il concetto di delocalizzazione i quello di internazionalizzazione, in altre parole non si limitano più a commissionare parte della loro produzione alle fabbriche cinesi, ma si sono spostate con armi e bagagli in quel territorio, fondando imprese a gestione esclusiva o mista.

Si è passati dalla semplice trattativa commerciale all’esportazione in loco di modelli operativi, di culture d’impresa e in genere del cosiddetto “know-how” con annessi personale specializzato, materiali specifici e istruzioni all’uso. Ma ha dovuto accettare una reciprocità spesso sbilanciata e invadente.

A livello interno, la collaborazione con altri Paesi ha incentivato un sviluppo produttivo cinese  - alimentato dalla curiosità  verso il mondo capitalistico, tipica delle comunità intensive e vogliose di emergere - che continua a crescere con legge esponenziale. Ma non si può parlare di espansione industriale. Il risultato è completamente diverso al passaggio fra agricultura e industria, fra dispersione periferica e urbanizzazione, che marcarono l’Italia alla fine degli anni Cinquanta.

La Cina, forte del suo capitale demografico abituato al sacrificio e alla frugalità, punta sul capillare. Dalle grandi fabbriche si è passati al concetto di azienda produttiva. Ne sono prova i 42 milioni di “piccole e medie imprese” che in Cina rappresentano il 60 per cento del giro economico nazionale e forniscono il 75 per cento dei posti di lavoro. Per contro, almeno per ora, si è dovuto chiudere un occhio sulle esigenze ambientali e sui consumi energetici, che hanno dato una brutale sferzata al mondo intero assorbendo una quantità incredibile di energia e producendo un elevato tasso di inquinamento con il quale prima o poi dovremo fare i conti. 

Il fatto è che, nonostante gli inevitabili lati negativi che accompagnano ogni processo formativo sociale ed economico, la Cina continua a rappresentare un obiettivo immensamente allettante, anche se ancora risulta difficile imporle l’importazione di alcuni prodotti italiani, come ad esempio il prosciutto, i kiwi e le mele. Per contro la Cina ha potenziato l’esportazione di altri prodotti verso l’Italia, nel settore delle telecomunicazioni, dell’informatica, dei tessuti, dell’abbigliamento e del terziario.

La convinzione generale che i prodotti cinesi siano di bassa qualità ha fatto perdere di vista il pericolo ben più grave, a livello commerciale, di un passaggio dei prodotti cinesi importati ad un livello superiore. Se i cinesi dovessero ricordarsi che ai tempi di Marco Polo erano i produttori della seta più raffinata del mondo, o forse addirittura dell'unica seta esistente, sarebbero guai per tutti. Lo scalino dalla bassa qualità, reso necessario per un primo piazzamento sui mercati esteri, a quello della buona qualità, sopraggiunto in un secondo tempo, potrebbe influire pesantemente su produzioni italiane tradizionalmente assestate e fin’ora intoccabili.  

Questa tendenza è chiaramente annunciata dall’introduzione del Marchio DOP (Denominazione d’Origine Protetta) su oltre 500 prodotti tipici cinesi di artigianato, alimentari, vini e frutta. Il valore attuale del mercato DOP dei prodotti cinesi è pari a 70 miliardi di dollari ed è in rapida crescita. I cinesi sono sempre più attenti all’alimentazione. Gli acquisti sono dettati dai trend salutistici e del “wellness”, che registrano un autentico boom. Il tasso di crescita dei prodotti DOP sarà del 25 per cento nell’anno in corso. Un sensibile progresso si sta registrando anche in campo agroalimentere, nel quale si stima che entro 18 mesi la Cina potrà superare l’Italia in termini di quote sulle esportazioni mondiali.

Parte della responsabilità di tale flessione, se si verificherà, si deve alle nostre aziende che si sono fermate su posizioni acquisite. L’assenza in campo internazionale di catene italiane di Grande Distribuzione Organizzata non ha di certo favorito la situazione. In Cina queste strutture sono francesi, tedesche ed americane. Per contro l’Italia si è mossa attraverso altre iniziative di carattere istituzionale. Tre anni fa, infatti, è stato costituito il Comitato Governativo Italia-Cina, tramite un accordo congiunto firmato dal Primo Ministro cinese e dal nostro Presidente del Consiglio. Funzione del Comitato è quella di assicurare concretezza ad una “partnership strategica” fra Italia e Cina, rafforzando e facilitando le relazioni bilaterali a tutto campo.

Il progetto venne impostato nel 2003 durante il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea. Il risultato sarà quello di rafforzare i rapporti economici, commerciali, finanziari e industriali con la Cina, sia per quanto attiene alla pianificazione degli interventi e dei provvedimenti, sia per il loro coordinamento ed esecuzione. Come sempre, nel passaggio da regime totalitario e forme di governo più avanzate, ogni progresso avviene prima di tutto sulle frontiere dell’economia e del benessere fisico.

Ne è esempio la Spagna, dove la necessità di recupero del tempo perduto a causa della dittatura, legato alla esigenza di livellarsi gli altri Paesi europei, ha fatto mettere da parte la cultura a favore dello sviluppo economico e sociale del Paese. E la Cina, dove l’affiancamento al capitalismo sta imponendo nuovi stili di vita,  ne è una clamorosa conferma. Ma tutto questo fa parte del normale evolversi del mondo e non bisogna averne paura; al contrario occorre confrontarsi e trattare. Senza dimenticare che, sul mercato cinese, pesa il 20 per cento della popolazione mondiale.